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Vaslav Nijinsky, icona universale della danza, è un caso prototipico in cui la neurodiversità sostiene da un lato un successo planetario, plasmato da un modello antropologico originale e irripetibile, e dall'altro una catastrofe personale, rappresentata da una grave malattia mentale. Bambino prodigio, virtuoso del balletto, étoile intramontabile, coreografo geniale che anticipò il balletto moderno ed espresse, in personaggi come Petrouchka, il Fauno e l'Eletta, "universali" della condizione umana: questo fu Nijinsky nei primi trent'anni della sua vita. Nei successivi trenta, per una sorta di legge del contrappasso, fu catatonico. La sua esistenza eccezionale si intreccia con gli eventi storici, le avanguardie artistiche e il mondo pionieristico della psichiatria del primo novecento. Gli psichiatri che lo ebbero in cura, i migliori dell'epoca, non riuscirono a restituirlo al suo mondo e alla danza. Avrebbe potuto la psichiatria moderna contrastare un decorso così crudele? La psicobiografia del ballerino getta luce sulla complessità della mente creativa nelle sue relazioni col corpo, con lo spazio e col tempo, in un cammino appassionante che si traduce in evoluzione culturale. Il prezzo, talora, è la malattia mentale e il compito della psichiatria è quello di minimizzare tale costo